Come una slitta, Torre Jandl

Val d’Ambiez

“A tutte le montagne a volte capita di perdere qualche pezzo. Alle Dolomiti capita più di frequente perché la roccia dolomitica è meno compatta di altre, come il granito. I crolli sono dovuti in gran parte all’azione dell’acqua. Nelle stagioni calde essa entra nelle fenditure della roccia e quando poi d’inverno le temperature scendono sotto lo zero ghiaccia, aumentando di volume e facendo da pistone sulle pareti che la contengono. La frana che fece cadere me avvenne d’estate, probabilmente per il meccanismo opposto. Mi spiego meglio: il riscaldamento del pianeta non ha qui in montagna come unica conseguenza quella del ritiro dei ghiacciai, ma va a togliere anche un cemento naturale là dove è sempre stato. Alcune rocce stanno insieme proprio grazie al ghiaccio che salda le loro crepe. Dal momento che questo si scioglie, i crolli avvengono con maggior frequenza. Comunque non è che cade una torre al giorno. Si tratta di cambiamenti che riguardano migliaia, anzi milioni di anni.
La gravità vinse il mio equilibrio precario il 18 luglio 1957, alle sette del mattino. Mi spezzai poco sopra la base, per tre quarti della mia altezza, con uno scroscio e una serie di schianti. Mi girai su un fianco e precipitai. Finii sul ghiaione sottostante e lì cominciai a scivolare verso il basso, come una slitta, sempre più veloce. Vedevo il rifugio Agostini avvicinarsi rapidamente, dritto sulla mia traiettoria. Lo avrei spazzato via sicuramente. Dentro c’erano circa trenta persone. Quelli che stavano ancora dormendo furono svegliati dal forte boato causato dallo spostamento d’aria. La mia corsa terminò a quaranta metri dal rifugio, fu la loro salvezza. Mi fermai in mezzo a una grande nuvola di polvere, perfettamente intera. Due giorni dopo gli avventori del rifugio udirono un altro schianto secco. Mi ero rotta a metà. Sono così da allora. E credo che ci vorranno altre migliaia, forse milioni di anni, prima che mi sposti di nuovo”.

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