Val d’Ambiez
“Voi sapete cos’è la fatica? Se li aveste visti anche voi lo sapreste. All’inizio dei miei giorni vedevo passar di qui piccole processioni di gente dal volto sorridente e piegato dallo sforzo, quello vero. Non parlo degli alpinisti che danzavano sulle creste in cerca di fama e adrenalina, ma di quelli che mi portarono su a spalle, mattone su mattone. Mi costruirono nel 1937 e per i giovani della zona era un buon modo per guadagnarsi il pane, duro certo, ma non si sputava nel piatto viste le ristrettezze e la scarsità di lavoro. I portatori partivano a piedi da San Lorenzo in Banale, giù, 1500 metri più in basso. C’era una strada di selciato che saliva i primi metri di dislivello, ma era talmente ripida che i muli non riuscivano a farla. Ah, se conosceste quella strada. Quei ragazzi si caricavano sulle spalle i sacchi di cemento, che allora erano da cento chili l’uno, e li portavano su in questo modo: uno faceva 100 meri di sentiero con il sacco in spalla, poi lo lasciava a terra, tornava indietro dove aveva lasciato l’altro, si caricava addosso quello, faceva duecento metri e poi tornava a prendere il primo sacco e così via. Con questo sistema, senza elicotteri, né jeep, né altro, un uomo riusciva a portare al rifugio 200 chili di cemento al giorno. Un giorno sì e l’altro anche, verso le due o le tre di pomeriggio, qui sul Brenta arrivavano dei temporali da spazzare via una casa. E loro avanti, testa bassa, sperando di non prendersi un fulmine in testa. Alla sera, quando giungevano qui e finalmente potevano liberarsi le spalle da quel basto, ad aspettarli c’erano altre ore di cammino per tornare a casa. La fame mette le ali ai piedi”.
Commento